Vijay Iyer è un musicista poliedrico ed impegnato su molti fronti: un consolidato trio, uno splendido sestetto (lo risentiremo mai alle nostre latitudini?), ed altri più originali organici che mettono in evidenza di suoi talenti di creativo innovatore (vedi l’ultimo ‘The Transitory Poems’ in duo con Taborn). Non è però frequente ascoltarlo in solo piano, quantomeno negli ultimi anni e soprattutto dal vivo: l’occasione offerta dalla rassegna ‘Pianisti di Altri Mondi’ al Teatro Parenti di Milano era quindi preziosa, per tacere del fatto che questo atteso ciclo finalmente riapre nel desertificato paesaggio musicale milanese una finestra durevole e strutturata sulle più recenti evoluzioni della scena di ricerca internazionale, sia jazzistica che di estrazione c.d. ‘accademica’. Un’iniziativa quindi da sostenere convintamemente ed attivamente nel suo prosieguo.
All’ingresso in teatro colpisce immediatamente una significativa scelta di rigore: quella di far svolgere il concerto senza alcuna amplificazione, in acustico puro. Del resto il pianoforte a coda Fazioli che campeggia sul palco basterà a riempire la sala con uno splendido suono ricco di nuances e sfumature, che contribuirà non poco alla performance del pianista indoamericano.
Sin dai primi momenti il ‘solo’ di Iyer colpisce per la sua assoluta nitidezza, una sorta di esattezza che tuttavia non esclude la passione e l’intensità. Il suono di Iyer è limpido, incisivo, ma al tempo stesso capace di infinite sfumature, sia nel timbro che nella dinamica. Questo gli consente di avventurarsi in affreschi sonori molto estesi.
Una delle trappole più ricorrenti del piano solo è quella di avere a disposizione una tastiera molto più ampia rispetto alle idee ed ai contenuti musicali che si hanno per riempirla. Nel caso di Iyer avviene esattamente il contrario: gli 88 tasti sono quasi troppo pochi per la vastità di orizzonti che la sua musica schiude.
Sin dal primo momento ci si rende conto che tutto quello che ascoltiamo è rigorosamente e lucidamente pensato: lo si nota soprattutto nelle brevi pause che precedono l’inizio delle tre-quattro sezioni in cui si suddivide il concerto, pause in cui si percepisce palpabilmente il momento della ideazione. In una parola, nella mattinata al Parenti con Iyer abbiamo toccato finalmente con mano uno dei grandi miti della musica del ‘900, anzi , diciamolo pure, uno dei suoi miraggi teorici che raramente abbiamo visto compiutamente e convincentemente realizzato: la composizione istantanea.
Iyer nella sua concentrazione e nella susseguente, immediata traduzione in atto del pensiero musicale mi ha rimandato alla mente il ricordo molto bello di un concerto degli anni ’80: Pierre Boulez che dirigeva il suo Ensemble Intercontemporain su di un repertorio francese di fine ‘800. C’è la stessa esattezza, la stessa limpidezza e la stessa lucidità dell’ideazione che precede con infinitesimale anticipo una fluida esecuzione senza alcuna sbavatura od esitazione.
La performance di Iyer non ha conosciuto un momento di stasi o anche di mera ricapitolazione esplicativa, che pure sarebbe stata accettabile come ‘ponte’ lanciato verso gli ascoltatori, dato l’impegno della proposta. Con ciò non si vuole dire che Iyer sia fuggito in avanti lasciandosi alle spalle il suo pubblico: tutt’altro, al riguardo il suo approccio ai materiali tematici è stato molto significativo. Quasi tutti i brani iniziavano con degli scarni, ma riconoscibili spunti tematici, come delle zattere cui il pubblico era tacitamente invitato ad aggrapparsi. E da quel momento il momento il pianista iniziava una sua lunga elaborazione che ruotava lentamente intorno a queste cellule: l’ascoltatore, ormai avvinto a questi minuti, ma ben delineati frammenti tematici, veniva insensibilmente risucchiato in un lento e sempre più ampio vortice in cui si perdeva il senso dell’alto, del basso e di qualsiasi altra dimensione e direzione che non fosse quella dell’Oltre.
Nell’intenso, ipnotico maelstrom di Iyer abbiamo intravisto un monkiano ‘Work’ (dal suo ‘Break Stuff’, da riascoltare con molta attenzione), poi un più marcato ‘Far from Over’ dall’omonimo album in sestetto (a quando un’altro?), ed infine, dopo una prolungata avventura sonora, abbiamo visto materializzarsi come un surreale miraggio un ‘Night and Day’: una bella, tradizionalissima ballad trasformata in un’oggetto esoterico dalla capacità di rifrazione di questo prisma capace di incessanti scomposizioni che è la musica di Iyer.
Sono così insensibilmente trascorsi quasi 90 minuti, un’eternità al piano solo, soprattutto per un musicista che, ripetiamolo, non si appoggia neppur minimamente alla ricapitolazione ed alla conferma del già esposto e del già noto. Un pubblico assorto e concentrato ha sostenuto con percepibile empatia il musicista: sarano in molti ad aver riportato nel loro ideale carnet di ascolto l’emozione di una performance memorabile, al limite del mozzafiato.
Personalmente, sono felice di smentire me stesso: qualche giorno fa, riandando alle uscite discografiche del 2019, mi veniva da scrivere che ormai è tempo solo di gente che percorre strade già segnate od al più ne prosegue il tracciato. Invece Iyer è riuscito a sorprendermi, ricordandomi quegli antichi che le strade le tracciavano in territori ancora non calpestati, disegnandovi le due linee destinate a far crescere le città future. Milton56
Post Scriptum: mi riesce difficile capire come un’etichetta che ha la fortuna di aver sotto contratto un musicista in un simile, palpabile momento di grazia non abbia avuto l’idea di metter in campo i modesti mezzi tecnici ed economici per documentare anche ‘a futura memoria’ performances da cui facilmente si ricaverebbe un album di quelli destinati a restare.