Magmatico. Instancabile. Compostissimo. E fortemente affermativo, deciso in ogni nota,anche nei (rari) passaggi eterei che concede.
Vijay Iyer apre il ciclo Pianisti di altri mondi con un concerto forte, che non fa sconti e non cerca scorciatoie. E lui, di famiglia Tamil immigrata negli States dal sud dell’India, matematico corteggiato già da giovanissimo ad Harvard, e soprattutto figlio del melting pot newyorkese con un background musicale più che eterogeneo, incarna totalmente un simile titolo.
La rassegna porta la firma di Gianni Morelenbaum, a cui Milano deve anni e anni di concerti davvero ad alto livello (penso a John Zorn al Manzoni per dirne uno fra tantissimi), dunque la certezza è che le scelte saranno coraggiose. E nella sala piena del Teatro Franco Parenti il clima è quello delle grandi occasioni.
I minutaggi dei brani raccontano già molto: il primo dura quasi 25 minuti, il secondo 12, il terzo 20, il quarto e ultimo 16. Vijay Iyer improvvisa praticamente tutto, e compone in continuazione, lì e in quel momento. Elabora soggetti, frammenti di note, li spolpa e li rimodula per poi abbandonarli e passare a tutt’altro senza troppe cerimonie, per poi magari ritrovarli quando ormai parevano cosa dimenticata. Nel suo fare musica c’è evidente il senso della frenesia e dell’abbondanza incontrollabile degli input che caratterizza la nostra esistenza. E il suo messaggio pare essere che solo un rigore e una chiarezza di intenti quasi sovrumani possono tenere testa a questo vortice.
Sempre atonale, sono rarissimi i momenti in cui concede armonie relativamente semplici. Perché il senso è altrove, è nei giochi ritmici, negli accenni di blues completamente fuori contesto. A tratti pare che la mano sinistra sia presa a prestito da Stravinsky e la destra da Jarrett. Svolazzi di note su un magma di bassi dai movimenti primordiali. I colori in particolare mi fanno ricordare la versione per pianoforte a quattro mani della Sagra della Primavera (che ammetto di ascoltare più volentieri di quella per orchestra). E dunque non sono esattamente brand new. Ma la modalità creativa e le quantità forse sì. E se devo cercare un difetto in questo concerto, è proprio una certa persistenza di alcune atmosfere, che si evidenzia nel bis: un’altra composizione che non si stacca dallo stile dei brani precedenti e non sembra aggiungere molto al concerto.
D’altra parte a quanto pare il recital solistico non è il suo set preferito: a scorrere il catalogo delle produzioni che lo vedono coinvolto si capisce che il suo habitat è nell’interazione, nell’animare formazioni e collaborazioni con nomi importanti del jazz e delle avanguardie, con un’evidente predilezione per l’ambiente afroamericano.
Composto Vijay Iyer lo è totalmente. Fra un brano e l’altro un sorriso e un breve, canonicissimo, inchino con mano sul pianoforte, e le uniche parole che pronuncia, a metà concerto, sono “no more photos please”. L’unico tocco ironico, ma chissà se voluto, è l’indossare in un luogo così teatrale una cravatta viola, colore temutissimo in quel mondo.
Ma lui è un pianista di altri mondi, e certe faccende non sono per lui.