Milano, domenica 23 febbraio. In una mattinata di ordinaria follia collettiva più di 200 persone si sono raccolte nella Sala Grande del Teatro Parenti (che largocirca ha intorno ai 500 posti): come al solito in gran maggioranza non si trattava certo di giovinetti, ma anzi parecchi spettatori potevano a ragione ritenersi inclusi in quello scaglione d’età ritenuto più esposto al rischio coronavirus, ma che ancora porta con sé il ricordo di anni in cui salire su di un treno, su di un aereo od entrare in una banca equivaleva ad un giro di roulette russa. Chissà perché, mi è venuto da pensare al prologo del Decameron di Boccaccio, anche lì la parola ed il racconto venivano visti come antidoto al delirio collettivo. Purtroppo l’appuntamento di ‘Pianisti di Altri Mondi’ sarà l’ultimo prima di un coprifuoco che temo ci priverà per parecchio di ogni occasione di rifugio nella condivisione collettiva di esperienze culturali ed estetiche: l’ultima cosa che questo già povero Paese meritava di vedersi inflitto, un colpo che lascerà a lungo il segno soprattutto su di un circuito musicale già duramente provato e che acuirà la sua emarginazione dalla scena internazionale ben al di là della durata dei provvedimenti amministrativi di chiusura. Comunque, compreso della gravità del momento, anch’io mi sono rassegnato ad adottare la mia proflassi cautelativa: ho staccato la spina del televisore, sicuro veicolo del virus della psicosi mediatica, tanto non mi perdo assolutamente nulla di quello che mi viene negato con la chiusura di teatri, sale da concerto e cinema. Facebook poi non so nemmeno cos’è: figurarsi, già a vent’anni ne avevo le tasche piene dei ‘fascicoli’ sciaguratamente ereditati dalla nostra Repubblica……
Ma ritorniamo al palco del Parenti ed al suo intrepido pubblico. Stavolta era di scena Yonathan Avishai, pianista israeliano ormai da tempo in giro per il mondo, con una predilezione per la Francia. Dai tempi del rimpianto Aperitivo in Concerto abbiamo imparato a conoscere vari musicisti ed interi gruppi provenienti da quel paese, che presenta una scena jazzistica vivacissima, al punto di alimentare con continuità anche quella newyorkese. Questa fioritura ci conferma ‘ad abundantiam’ sia che il jazz è ‘musica del conflitto’ (forse per questo da noi langue un po’…), sia che si nutre di un melting pot musicale e culturale spontaneamente sedimentato nelle persone e nella loro storia (e non sintetizzato in laboratorio…).
Sarebbe stato anche logico attendersi quindi un concerto denso di musica calda e ricca dei colori di eterogenee tradizioni musicali a cavallo tra il vicino Oriente ed il Mediterraneo che quasi tutti i jazzmen di Israele portano con sé quasi come parte del loro Dna culturale e musicale. Invece Avishai ci ha sorpreso con un programma evidentemente frutto di un attento studio e che aveva la dichiarata intenzione di scavare alle radici più profonde e recondite delle musiche popolari contemporanee. E soprattutto di farlo muovendo da aree geografiche inizialmente distanti, ma che nel corso del ‘900 sono lentamente confluite in un vortice planetario da cui è scaturito il DNA delle musiche extraccademiche contemporanee.
L’afroamericano Scott Joplin, il brasiliano Ernesto Nazareth ed il cubano Ernesto Lecuona sono le figure germinali individuate da Avishai. Il legame di Joplin con la musica afroamericana è più ovvio e trasparente, meno quello degli altri due compositori, esponenti però di mondi musicali che pochi decenni dopo conosceranno una non casuale convergenza nel melting pot jazzistico, nonostante questo avesse già assunto suoi spiccati caratteri distintivi: una riprova della ‘fatalità’ dell’incontro.
Il programma proposto avrebbe potuto far presagire una certa schematicità didascalica, vista la sua impostazione illustrativa e quasi didattica. Alcuni dei brani avevano poi la struttura di serie di variazioni, per tacere poi dello scontato stereotipo di spigolosità e quasi meccanicità tradizionalmente associato al ragtime (una tara dovuta alla sua diffusione di massa tramite i rulli di pianola, quasi un contrappasso per la fortuna di esser la prima musica a beneficiare di tecniche di riproduzione meccanica?).
Ancora una volta Avishai ha aggirato le sabbie mobili dell’ovvio rivelandosi interprete dal discorso fluido ed armonioso, e soprattutto di controllata misura sia nei tempi che nelle dinamiche. In questo è stato aiutato anche da un tocco quantomai calibrato e capace di far emergere le delicate nuances delle partiture di Nazareth e di Lecuona, e di darci un’insolita lettura quasi ‘impressionistica’ e francesizzante di Scott Joplin. Anche in quest’occasione un contributo non trascurabile è venuto dal piano Fazioli, strumento che mi seduce sempre di più ad ogni ascolto.
La lettura lieve e trasparente di Avishai (estesa anche a sue composizioni originali) alla fine ci ha restituito invece di scontate cartoline esotiche dai colori enfaticamente sgargianti un delicato, ma preciso album di miniature che ci ricorda l’ormai acquisita storicità di queste musiche. Ciò peraltro non ha impedito di concludere con l’ironica declinazione di un brano di Joplin nei registri delle future musiche che sarebbero seguite, da quella cubana al rock ‘n roll.
E con quest’album nel cuore ci reimmergiamo nella città desertificata e silenziata, eccezion fatta per i Don Ferrer dell’ “adelante, adelante…… cum juicio…”, gli scienziati più a loro agio con le telecamere che con le provette ed i reporter che oltre a ripassarsi tutte le puntate di ‘X Files’ dovrebbero anche dare una rinfrescatina alla ‘Storia della Colonna Infame’, in Rete si trovano dei riassunti belli e pronti…. Milton56